DA MANAGER A IMPRENDITORE.
La decisione che mi ha portato ad eccellere come investor.
Tramite la mia mansione di investor relator in IMA avevo capito quali sono le informazioni di bilancio e le grandezze che gli investitori analizzano per massimizzare i propri profitti: ero diventato un ottimo analista finanziario. Come quando un bravo dottore esegue la diagnosi sulla base di poche informazioni, io sentivo di sapere dove investire sulla base della mia finissima capacità di osservazione e lettura delle situazioni finanziarie e dei fenomeni del mondo che mi si prospettavano. Sentivo che ci potessero essere tanti altri manager in grado di svolgere quel ruolo meglio di me, e allo stesso tempo non sentivo una propensione verso quel tipo di mansione. Era come dover fare tutti i giorni la stessa cosa e non era semplicemente nella mia indole. Quello che avevo fatto era stato cogliere una grande opportunità d’investimento sulla base di poche informazioni, azzeccando diversi investimenti. Il fatto che ciò era avvenuto in un’azienda di famiglia era una casualità, che certo mi aveva facilitato ma comunque una casualità. La mia forza si era rivelata essere quella di capire il potenziale inespresso di un business e di come trasformare un’inefficienza gestionale in una fonte di rendita assoluta. Tramite il successo avuto con le azioni IMA potevo ovviamente avere un accesso praticamente illimitato alle fonti di credito, per cui iniziai a fare una serie di investimenti a rischio moderato, in diversi settori. Ciò andava chiaramente in disaccordo con la mia eventuale presenza all’interno di queste aziende, ruolo che comunque mi annoiava molto.
Uno dei primi investimenti che a quel punto feci fu in un’azienda che produceva videogiochi per PlayStation e PC, la CTO; ero certo che il mondo della console “casalinga” avrebbe preso sempre più piede a scapito di quella da sala giochi e che avrebbe coinvolto gli adulti piuttosto che i giovani. Inoltre avevo previsto la mobilitazione da parte di case concorrenti per la creazione di nuove console che potessero reggere il confronto con il gioiello di casa Sony. Vedendo la situazione ad oggi, non mi sbagliavo.
Tramite le mie conoscenze nel mondo delle banche e degli affari conobbi all’epoca due ragazzi che mi esposero la loro idea riguardo ai viaggi last minute. La vita stava diventando sempre più frenetica e i ritmi produttivi nel mondo del lavoro sempre più elevati (visto anche l’avvento della telefonia mobile che stava andando a velocizzare tutti i flussi), per cui diventava impossibile muoversi con largo anticipo per prenotare, ad esempio, vacanze e quant’altro. Non ci misi molto a capire che anche quello era un investimento che andava fatto.
Investii quindi 22 miliardi di lire per il 25% della CTO e 12 miliardi per un terzo della Last Minute Tour (la ditta di viaggi last minute di cui sopra, che praticamente partiva da zero). Portai a termine altri investimenti e la mia centrale rischi toccò quota 300 miliardi. A circa 29 anni, come capitale di rischio personale in Italia ero secondo solo a Cragnotti, l’allora presidente della Lazio.
Ricevetti la delega ad occuparmi della quotazione in borsa della CTO e nel 2000 la quotai con un valore di capitalizzazione di 425 miliardi, per cui il mio 25% giunse a valerne circa 100. Dopo circa due mesi il valore dell’azienda era pressoché raddoppiato a 800 miliardi. Avrei potuto vendere con tutto il guadagno che ne sarebbe derivato, ma per i miei principi di cui ho parlato in precedenza ho voluto portare a termine quanto promesso, rispettando il contratto che avevo firmato che prevedeva una clausola di lock-up del mio capitale di 24 mesi. Avrei potuto aggirare questo vincolo in mille modi, ma decisi di non farlo.
Nel frattempo intrapresi l’iter di quotazione della Last Minute Tour, che venne inizialmente valutata 1200 miliardi. Mi sarei trovato quindi con una quota di partecipazione di 400 miliardi ma, sfortunatamente, la Borsa negò all’ultimo minuto l’autorizzazione già concessa da Consob. Era il luglio del 2000 e Borsa prese tempo volendo vedere l’andamento dell’azienda nei suoi mesi di punta, ovvero luglio e agosto, prima di dare l’ok.
Ma a quel punto quella bolla di speculazione legata all’avvento delle nuove tecnologie informatiche e digitali nel mondo finanziario (la cosiddetta New Economy; pensate che Tiscali arrivò a valere più di Fiat in quegli anni) scoppiò e io mi ritrovai a fare i conti con un enorme potenziale perso. CTO perse gran parte del suo valore e mi trovai a dover lavorare industrialmente su Last Minute Tour per far fronte alla sovrastruttura che avevo creato per assecondare il teorico aumento di capitale e la successiva crescita.
Se l’illusione non fa bene, la disillusione è di gran lunga peggiore. Con due opportunità del genere e 600 miliardi di capitalizzazione avrei potuto pensare di finire, male che mi potesse andare, con 200 miliardi di guadagno. E a 30 anni con quella cifra lì, in quegli anni lì, sarei stato “straricco”. Nel frattempo mi iniziavo a muovere verso altri progetti, primo tra i quali fu la prima Offerta Pubblica d’Acquisto volontaria mai effettuata sul suolo italiano, su un’azienda chiamata Freedomland. Freedomland era una società che aveva come business model l’internet television, ovvero l’idea di navigare su internet tramite la TV del proprio salotto grazie ad un decoder, secondo il concetto che la rete fosse una “questione famigliare”. Ovviamente non è mai stato così, essendo internet una cosa molto privata. All’epoca il valore delle aziende era direttamente proporzionale al bacino di utenze che esse potevano raggiungere e dopo 6 mesi dalla quotazione in Borsa si scoprì che, per tale azienda, questo bacino era stato ampiamente gonfiato tramite offerte non ancora concluse da accordi contrattuali effettivi e fatture fittizie agli utenti. Ma nel frattempo era già stato approvato e apportato un aumento di capitale di diversi milioni di euro. Ricordo che l’artefice di quella truffa, l’AD Virgilio Degiovanni, finì addirittura in carcere lasciando un azienda con un business model davvero scarno in mano ad un consiglio d’amministrazione eletto dalle banche.
La mia OPA venne comunque superata a pochi giorni dal termine in quello che fu un giro piuttosto losco di eventi di origine speculativa su cui intervenne poi la CONSOB.
A quel punto mi muovetti in un’altra direzione, acquistando la più grande azienda produttrice di camper in Italia. Anche quella manovra fu frutto di una mia pensata molto semplice: il mercato immobiliare era arrivato alle stelle , per cui diventava molto complicato per la gente comperare la seconda casa (al mare o in montagna, per esempio). Se aggiungiamo i prezzi degli hotel che erano a loro volta in continua crescita, l’idea del camper era un’opportunità che avrebbe preso sempre più piede. Inoltre, sapevo di poter contare su quella che è una sorta di fidelizzazione in quest’ambiente, essendo il camper non solo un bene fisico bensì una tradizione che le famiglie di questa nicchia si tramandano di generazione in generazione.
Investii su quest’azienda, che produceva circa 7000 camper all’anno, 108 milioni di euro. Effettivamente feci però fronte ad un esborso di “soltanto” 1.800.000 euro, grazie ad un sistema di leva su diversi piani di debito che mi consentiva di ottenerne il controllo con un rischio calcolato e sulla base di quella che per me sarebbe stata una crescita certa. Ero azionista di maggioranza relativa, col 40%.
Dopo due anni vendetti ad un fondo inglese la mia quota per 208 milioni, quando l’azienda era giunta a produrre ben 13000 camper all’anno, circa 6000 in più di quando vi entrai. Portai a termine un’altra brillante operazione in un’azienda produttrice di vetro, nella quale ho ancora una minoranza oggi, che acquistai per 65 milioni e rivendetti per 109.
Un’altra mia trovata fu quella del Toy Watch, l’orologio di plastica. Nonostante si trattasse di un oggetto che veniva tipicamente venduto in spiaggia e la gente che avevo attorno mi facesse notare questa cosa con una certa ironia, io pensavo che questo prodotto potesse fare la sua strada attraverso un differente canale di vendita e tramite il concetto di “lusso percepito”. Chiaro che il lusso inteso in senso lato si collega a determinati beni non accessibili a tutti, ma io introdussi questo nuovo concetto per cui anche qualcosa di non costoso potesse creare una tendenza ed una certa “lussuosità”. Mi divertiva il fatto che magari una persona con un orologio di plastica potesse sentirsi in egual misura “cool” rispetto ad un’altra con un orologio da 50.000 euro.
Aprii così un negozietto di 15 metri quadrati a Milano, in via Montenapoleone, pagando una buona uscita di 1 milione di euro. Soltanto questo negozio arrivò a fatturare un milione e mezzo di euro in un anno, tanto che poi aprii altri 40 punti vendita tra diretti e franchising nel giro di un anno e mezzo.
L’unico mio errore fu quello di vendere, dopo circa 3 anni, ad un fondo d’investimento il 49% dell’azienda a 32 milioni di euro quando avrei, col senno di poi, dovuto vendere tutto concludendo un affare ancora più grosso di quel che comunque fu. Investii praticamente in 12 settori merceologici diversi sulla base di quelle che erano le mie intuizioni e le mie previsioni, e al contempo ero sempre consigliere e azionista di IMA (che continuava nella sua crescita costante, seppure ancora ben distante da quella degli ultimi 7-8 anni). Vivevo sempre qui a Castenaso e avevo un elicottero privato; la mia vita consisteva nel muovermi a bordo di esso a supervisionare le aziende in cui avevo partecipazioni, seppure non avessi ruoli manageriali veri e propri. Questi li lasciavo a chi di dovere.